1861. Il regno delle Due Sicilie è annesso al Piemonte. Inizia la
resistenza
Dal Libro di Antonio Pagano: Due Sicilie 1830/1880
Luglio
S. Vito (Teramo), il 1, insorge contro il nuovo regime.
Interviene il 30° reggimento fanteria. I militari rastrellano il
paese, fucilano 153 civili e ne deportano 120 in Piemonte.
Nei
boschi di San Fele avviene uno scontro tra guerriglieri e un forte
gruppo di carabinieri e guardie nazionali. 14 sono catturati e
fucilati. Nel comune di Isola gli insorti di Chiavone assaltano il
posto doganale dello Scaffo S. Domenico es’impossessano d’armi e
munizioni.
In Irpinia, il 2, sono in rivolta Chiusano, Sorbo
Serpico, Salza, Volturara, Malepassoe Monteforte. Nel beneventano un
drappello di soldati è massacrato e i loro cadaveri sono appesi ad
un chiodo davanti alle porte delle case che poco prima hanno
saccheggiato.
A Napoli sono arrestati per “camorrismo” circa
80 operai della costruenda ferrovia da Napoli all’Adriatico che
protestavano per i bassi salari imposti dai piemontesi. Tumulti e
scioperi sono compiuti ancora dagli operai della fabbrica Bruno e da
ebanisti.
Il luogotenente Ponza, preoccupato per la crescente e
dilagante rivolta, chiede urgenti rinforzi di truppe a Torino.
La
società di Adami e Lemmi, intanto, dopo aver occultato tutto il
denaro ricevuto per la costruzione delle ferrovie napoletane,
rinuncia all’impresa. L’operazione è tenuta nascosta, mail
giornale torinese, VEspero, denuncia le tangenti e perché fosse
affidato l’appalto. Il governo decide di riaffidare l’opera al
francese Talabot, socio di James de Rothschild, il banchiere parigino
che aveva già finanziato tutti gli affari e le guerre dei Savoia. Il
Talabot rinuncerà anch’egli alla concessione.
Il 5, a
Montefalcione a seguito di una rivolta popolare sono scacciati i
liberali e sono ripristinate le insegne delle Due Sicilie.
Sono
aboliti il Collegio della Real Marina in Napoli, la Scuola
d’insegnamento nautico di Piano di Sorrento, le scuole nautiche
mercantili di Bari, di Palermo, Messina e Catania.
Il 6 insorge
tutta l’Irpinia e sono respinti tutti i tentativi di attacchi delle
guardie nazionali e delle truppe. Anche nel Matese la rivolta scoppia
partendo da Letino e da Gallo. In Montemiletto quattro soldati e un
caporale del 6° fanteria e un tenente della guardia nazionale sono
uccisi dalla popolazione inferocita.
Il 7 si ribellano trentuno
comuni che innalzano la bandiera delle Due Sicilie. I liberali
scappano tutti a Napoli, i soldati catturati sono tutti massacrati. A
Paroline, a Montemiletto e a Lapio sono costituite nuove autorità
comunali. Sul colle Sant’Angelo, nei pressi di Atripalda, un gruppo
legittimista è attaccato dalle truppe che sono respinte. I soldati
si dirigono verso Manocalzati, che è rastrellato ed in parte
saccheggiato.
A Monteforte Irpino 170 uomini della resistenza
uccidono numerosi soldati occupanti.
In provincia di Campobasso un
reparto di fanteria che sorveglia alcuni detenuti, attaccato dagli
insorti, stermina i prigionieri per poter fronteggiare l’attacco
senza impacci.
Il prefetto di Avellino, De Luca, alla testa di una
compagnia del 6° fanteria e di un battaglione della guardia
nazionale riesce a riprendere Atripalda e attacca poi Candida e
Chiusano annientando le resistenze e procedendo poi a sommarie
fucilazione dei catturati.
A Napoli vi è un altro violento
tumulto degli operai della ferrovia contro la guardia nazionale,
represso a fucilate da un reparto di bersaglieri.
Il governatore
di Teramo, Sigismondi, chiede truppe al comando di Napoli per
contrastare la resistenza che ha il completo dominio del Comune di
Penne. Anche nel circondario di Sora opera incontrastato il gruppo
comandato da Schiavone.
L’8, Carlo Torre, governatore di
Benevento, invia al segretario generale del Dicastero di Polizia in
Napoli, Silvio Spaventa, una relazione allarmata sulla situazione nel
Sannio. Cialdini, acquartieratosi in Avellino, il 9, invia a
Montefalcione una spedizione composta di 500 soldati del 6° fanteria
e di un battaglione della guardia nazionale al comando del prefetto
De Luca. Queste truppe, durante il loro cammino, ammazzano numerosi
contadini solo per precauzione. Giunte nei pressi dell’abitato,
sono assalite dagli insorti, circa 6.000, e devono rifugiarsi nel
monastero dei Padri Dottrinari, subendo numerose perdite. Qui sono
salvati da gruppi di fanteria e cavalleria della Legione ungherese
accorsa da Nocera, quando già l’edificio sta per essere
incendiato.
I reparti di Pilone assaltano Boscotrecase e, evitando
di cadere in una trappola tesa dalle truppe, le aggirano e le
sbaragliano uccidendo due ufficiali, impadronendosi anche delle armi
da fuoco in dotazione e liberando dal carcere cinque insorti
imprigionati. Sempre il 9, le bande di La Gala costringono le truppe
a sgomberare tutto il beneventano.
Due colonne formate da 200
mercenari ungheresi, con quattro cannoni rigati, un battaglione e 800
guardie mobili assaltano nuovamente Montefalcione. La cittadina è
circondata e dopo un’accanita resistenza è presa, saccheggiata e
data alle fiamme. Sono assassinati oltre 150 cittadini, altre
centinaia sono deportati. Il maggiore ungherese Girczy, comandante
del reparto ungherese, è decorato con la croce di cavaliere
dell’ordine militare di Savoia e la medaglia di bronzo al valor
militare. Altri quattro ufficiali piemontesi hanno la medaglia
d’argento.
In Capitanata il generale Gustavo Mazé de la Roche
ordina di incendiare tutte le masserie abitate e i pagliai, facendo
eseguire un ferreo controllo all’uscita degli abitanti dai
villaggi. Ogni sospetto è fatto fucilare. Da Bojano, in una lettera
ai familiari, scrive: «siccome i prigionieri facevano il gesto di
slegarsi chiamando in loro soccorso i banditi, i soldati hanno
cominciato ad ucciderli; sbarazzatisi così di loro, essi hanno
potuto, malgrado il loro numero, trarsi d’impaccio».
L’ 11,
De Luca porta le truppe ungheresi a Lapio, Montemiletto e Montefusco:
anche qui verificano uccisioni, saccheggi e incendi. Numerosi
abitanti riescono a salvarsi con la fuga dirigendosi sulle vicine
montagne. A Volturara De Luca fa impiccare un popolano e dà l’ordine
di lasciarlo appeso per molti giorni nella piazza del paese.
Sono
molte centinaia i paesi che si ribellano all’invasore piemontese e
ai loro collaborazionisti ed è quasi impossibile descriverli tutti.
È un intero popolo che insorge. Sono uccisi liberali, i sindaci
collaborazionisti e gli ufficiali della guardia nazionale. Sono
distrutti gli archivi comunali, distrutti gli stemmi sabaudi e sono
liberati numerosi detenuti. Tra i fatti più importanti vanno citati
quelli avvenuti a Visciano e di Vallerotonda in Terra di Lavoro; a
Migliano e a Moschiano nel Nolano; a Castelpagano e a Circello nel
Beneventano; a Castelluccio, Montecilfone, Guglionisi, Acquaviva, San
Felice e Cercepiccola nel Molise; a Fano Adriano, Tossiccia,
Crognaleto, e Montebello nel Teramano; a Pennapiedimonte, nel
Chietino; a Pescolamazza e Avella nell’Avellinese; a Baragiano ed
Auletta in Basilicata; a Vieste nel Gargano; a Gioia del Colle in
Terra di Bari; a Serracapriati in Terra d’Otranto; a Strangoli,
Zagarise e San Mauro in Calabria. Tutti questi paesi subiscono dopo
pochi giorni la repressione disumana dei piemontesi che uccidono,
saccheggiano e danno alle fiamme le case. Molte centinaia di persone
senza alcun motivo sono arrestate e deportate in Piemonte o in
Lombardia.
Il 12, in Capitanata i bersaglieri ed i lancieri del
“Milano” sorprendono e catturano nume rosi insorti alla masseria
Nocelle, presso Lucerà: ne fucilano sette anche se hanno deposto li
armi e si sono già arresi. A Vastogirardi e ad Acquaviva Collecroce,
nel Molise, le guardie nazionali riescono a respingere un assalto.
A
Napoli il conte Ponza di S. Martino si dimette da luogotenente
generale.
Il 13, ad Arpaia, nel Beneventano, un reparto di
bersaglieri e fanteria è messo in fuga, dopo uno scontro, dai gruppi
di La Gala. Anche la guardia nazionale di Colle Sannita subisce
perdite a Toppa dei Felci. Altri assalgono la guardia nazionale di
San Nicola e Monteforte Irpino, ma senza successo. Nuovi scontri
avvengono nei boschi di San Fele presso Ripacandida. In Calabria il
29° fanteria attacca a sorpresa formazioni di guerriglieri a
Strangoli, Picerno, Taverna e S. Giovanni in Fiore, ma la maggior
parte riesce a fuggire nascondendosi nella Sila.
È emessa
un’ordinanza, firmata da Silvio Spaventa, per la formazione di
altri reparti di guardie nazionali. Sono arruolati circa 600
ufficiali ex garibaldini e circa 20.000 guardie. È assicurata una
paga di centesimi 77 (grani 18) il giorno, superiore al salario medio
dei braccianti, ma sono numerosissimi i contadini che cominciano ad
occultarsi nei boschi.
Il 14, il gruppo di resistenza comandato da
Chiavone, attraversata la Val Roveto, libera S. Vincenzo, S.
Giovanni, Collelongo e Villavelonga e si dirige verso il piano delle
Cinque Miglia per riunirsi ai gruppi comandati da Centrillo nella
Majella, ma prima di Pescasseroli la formazione è costretta a
ripiegare perché trova le strade sbarrate dal 35° fanteria
piemontese. Nel ripiegare verso il fiume Liri i guerriglieri sono
assaliti durante il guado dal 44° fanteria e subiscono molte
perdite.
È assalita la corriera di Rotonda da 9 insorti che si
procurano nuove armi dai carabinieri messi in fuga.
Ad Avellino 60
insorti si costituiscono e sono subito incarcerati. Altri episodi di
protesta perle paghe troppo basse avvengono a Napoli, ma i
dimostranti sono dispersi dall’intervento delle guardie
nazionali.
Il 15 il generale Giovanni Durando è sostituito dal
generale Cialdini, che ha anche la carica di Luogotenente delle
Provincie Napoletane, riunendo nelle sue mani il potere militare e
quello civile. Il governo, considerando molto seria la possibilità
di una loro cacciata dai territori appena conquistati, ordina a
Cialdini di reprimere le insurrezioni con tutti i mezzi di guerra,
ordinando con decreto il saccheggio e la distruzione dei centri
ribelli. Costui ristruttura la guardia nazionale, arruolando anche
delinquenti, ex garibaldini e assassini, liberati dalle carceri,
promettendo loro l’impunità per ogni loro atto diretto contro i
briganti. È aiutato in questo reclutamento dalla borghesia del
Napoletano, possidenti, coloni e proprietari vari, che temono per la
loro incolumità.
È instaurato un sistema di carcerazione senza
prove e su semplici sospetti e il domicilio coatto. Sono moltiplicati
premi e le taglie per favorire la delazione. È intensificata
particolarmente una guerra psicologica attraverso bandi, proclami e
servizi giornalistici e fotografici che deformano ogni notizia per
stroncare la volontà di resistenza della popolazione.
Le truppe
destinate a combattere la guerriglia sono portate a circa
quarantamila uomini. Il VI corpo d’armata è formato da 18
reggimenti di fanteria, 9 battaglioni bersaglieri e 2 reggimenti di
cavalleria, ai quali si aggiungono le guardie nazionali reclutate
nelle varie zone. Solo a Napoli e dintorni vi sono 37 battaglioni. In
seguito sono create zone militari allo scopo di presidiare i
territori più importanti. Sul confine romano le truppe sono poste al
comando del generale Govone, in Terra di Lavoro è posto il generale
Pinelli, nel Molise Villarey, in Calabria De Gori. A questi
comandanti è dato il preciso ordine di dare alla repressione un
carattere spietato allo scopo di terrorizzare la popolazione.
Al
parlamento di Torino è approvato il 15 un decreto che dichiara il
corso legale della lira piemontese in tutto il territorio del
regno.
In Calabria, il 16, il capo della resistenza calabrese,
Luigi Muraca, pubblica un suo proclama:
«Catanzaresi, alle
promesse lusinghiere succedette il disinganno, alla ricchezza la
povertà, alla libertà la schiavitù. Eccoci, o Calabresi, al
disinganno del dolore, all’iliade più amara, sol chi è cieco non
vede là dove ci hanno condotti i falsi liberali, quelli appunto che
mettendosi un cencio rosso cercarono ed ebbersi la pagnotta, e non
fecero che per aver il loro scotto. E di fatto, se non fu violento il
plebiscito, perché le reazioni molteplici di tutte le Provincie del
governo borbonico? Perché il malcontento di tutte le classi, meno la
classe pagnot-tizia? E dov’è mai la libertà sotto un governo
liberticida che stiva le prigioni del nostro reame di reazionari da
quello chiamati col nobile nome di briganti? Le carceri pubbliche non
possono contenere di avantaggio. Dov’è la ricchezza se l’erario
è smunto, se spoglie sono tutte le casse pubbliche, depauperata la
più ricca fra le metropoli, Napoli. Dunque, o calabri, ai fatti: noi
abbiamo incominciate le nostre campagne, non già come quelle del
Gialdini con la marziale fucilazione, ina con la palma, con lo
giglio, col vessillo del nostro legittimo sovrano Francesco secondo
figlio di una santa, pronipote di un santo; guai a chi opporrassi
alle mie bande che non entreranno quai ribelli nei paesi e nelle
città dei prodi calabresi. Lo sanno gli scherani del Re sabaudo, lo
sanno gli stessi francesi che non hanno dimenticato il bruzio valore;
lo sanno i raccogliticci e melensi carabinieri; lo sa infine la
piumata guardia nazionale che altro non è buona, a fare la sua
comparsa pluteale, ebbene noi marceremo per istabilire in Calabria il
governo provvisorio a nome di Re Francesco secondo: se seguaci
troverete l’ancora della salvezza, se avversi ritenete che è
sonata l’ora vostra. Del territorio di Catanzaro, 16 luglio 1861.
Il Generale in Capo Muraca Luigi».
Il 16, Francesco II, in una
lettera inviata a Bermudez de Castro, afferma che i progettati
sbarchi in Sicilia ed in Calabria sono compromessi.
Il giorno 17,
Chiavone scaccia le guardie nazionali e bruciano le case dei liberali
a S. Giovanni e a S. Vincenzo nei pressi dell’Aquila. Il 44° di
linea giunge quando gli insorti sono già andati via.
A Napoli,
Silvio Spaventa, si dimette, dileguandosi senza lasciare traccia.
Il
gruppo di Chiavone il 19 è assalito di sorpresa a Collelungo da
reparti del 14° fanteria, ma riesce a sfuggire all’accerchiamento
rifugiandosi nel territorio pontificio.
A Napoli, il 19, Cialdini,
alla cerimonia d’insediamento, fa un minaccioso proclama terminando
con la frase: «Quando rugge il Vesuvio, Portici trema».
A Gioia
del Colle i piemontesi, allo scopo di prevenire altri accenni di
rivolta, incominciano ad incarcerare una cinquantina di presunti
ribelli. Il 20 è fucilato ad Avellino il comandante Vincenzo
Petruzziello, catturato a seguito di un tradimento. Nelle campagne
irpine le truppe catturano 232 “sospetti”, tra i quali numerosi
preti e le varie autorità dei paesi. Il giorno dopo vi è uno
scontro a Baragiano tra piemontesi e insorti, i soldati savoiardi
sono precipitati nei vicini burroni per risparmiare le munizioni.
Il
21, l’ex sergente Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle,
riunisce una folta comitiva di guerriglieri nei boschi vicini. Romano
dà alla sua banda una vera e propria struttura militare
caratterizzata da una ferrea disciplina.
Sempre il 21, si verifica
uno scontro tra un reparto di guardia nazionale e un gruppo di
resistenza di Cellino S. Marco. 11 sono catturati e portati a
Brindisi dove sono fucilati.
A Nola, dove il generale Pinelli ha
posto il suo comando per la repressione dei movimenti legittimisti,
sono concentrati tutti i sospetti catturati, che sono fucilati senza
alcun processo. Napoleone III, da Vichy, dopo aver affermato che
miseria ed anarchia imperversano nelle Due Sicilie dove si uccide
indiscriminatamente, conclude in una lettera di protesta al governo
savoiardo: «les Bourbons n’ont jamais fait autant».
Il
giornale torinese cattolico “L’Armonia”, il 21, dichiara che
degli oltre 70.000 soldati, che componevano il disciolto esercito
duosiciliano, solo 20.000 “consentivano a cambiare uniforme e
giurare fedeltà al nuovo governo”. Di questi circa 18.000 erano
stati incorporati coattivamente.
Il Senato decreta la costruzione
di un arsenale marittimo militare a La Spezia e lo smantellamento di
quello di Napoli.
Nella Valle del Liri si ha un altro violento
scontro tra gli insorti di Chiavone e un forte raggruppamento di
truppe del 44° di linea rinforzato da guardie nazionali.
A S.
Giorgio La Montagna, nell’avellinese, il 22 la casermetta della
guardia nazionale è assalita da una folla tumultuante.
Il 23, per
opera dell’avvocato Ettore Noli, è scoperta dalla polizia quella
che è chiamata “congiura di Frisio”, dal nome del villino a
Posillipo dove si riunivano i congiurati. Sono coinvolti: Monsignor
Bonaventura Cenatiempo, un ricco avvocato ecclesiastico, Girolamo
Tortora, un facoltoso possidente di Nocera dei Pagani, e altri ex
ufficiali duosiciliani, tra i quali il conte de Christen. Gli
incriminati sono 81, ma la maggior parte riesce a fuggire in tempo. I
restanti sono tutti condannati a dieci anni di lavori forzati. Il 14
ottobre 1862, il Cenatiempo riuscirà a sfuggire dal carcere,
nascondendosi in una cesta di biancheria sporca e riuscendo a
raggiungere avventurosamente Roma, dove sarà accolto gloriosamente
da Francesco n.
Il 24, in un rapporto dell’intendente di Cerreto
Sannita, Mario Carletti, al governatore di Benevento, Carlo Torre,
così si legge: «I briganti scorazzanti pel Matese, corona di aspre
ed intrattabili montagne poste a cavaliere di questa contrada, sono
entrati nell’ardito intendimento di scendere al piano e aggredire
l’abitato per consumarvi fatti di immane atrocità appena che la
poca forza regolare qui stanziata se ne apparti per poco chiamata
altrove …». Il governatore di Benevento chiede immediatamente
altre truppe al luogotenente Cialdini.
Gli insorgenti del Matese
sono guidati da Cosimo Giordano di Cerreto Sannita, ex sergente. Il
raggruppamento è costituito da circa duecento guerriglieri.
Ancora
il 24, Gioia del Colle e S. Vito insorgono ancora, contando sul
gruppo del sergente Romano, ma le truppe del 30° fanteria e le
guardie nazionali, entrate negli abitati nei giorni successivi,
compiono un massacro di 170 persone a Gioia del Colle e di 65 a
Vieste. Tra i fucilati vi è anche il fratello del Sergente Romano,
Vito, di appena diciassette anni.
Violenti tumulti avvengono a
Messina tra gli operai che protestano per le basse paghe imposte dai
piemontesi.
Il 25 vi è uno scontro a Cellino S. Marco tra guardia
nazionale e insorti, di cui undici sono catturati e fucilati il
giorno dopo nella piazza centrale di Brindisi. Il gruppo di
resistenza comandato dal sergente Romano si concentra nel bosco Lama
dei Preti.
A Napoli è arrestato e rinchiuso nel carcere di S.
Maria Apparente il figlio del principe di Montemiletto, Carlo Tocco,
duca di Popoli, uno dei principali organizzatori della resistenza
partenopea.
Numerose colonne mobili formate da reparti del 30°
fanteria e squadre della guardia nazionale rastrellano le campagne
intorno alla città di Bari.
Negli ultimi giorni di luglio
Chiavone attacca, in più riprese, il 3° reggimento granatieri,
fucilando ogni piemontese fatto prigioniero. Di lui parlano le
gazzette legittimiste di tutta Europa, esaltando le sue gesta. A
Napoli, alcuni insorti con veloci azioni si riforniscono di armi e
munizioni nelle casermette a Capodimonte ed al Vomero.
Il 27 i
bersaglieri arrestano presso Pozzuoli un corriere perché in possesso
di carte “borboniche” e lo fucilano nel paese di
Qualiano.
Antonio Apuzzo, detto Caprariello, forma un gruppo di
200 insorti, numerosi dei quali provenienti dagli sbandati del gruppo
di Barone.
AI Sud la situazione economica continua a peggiorare:
il pane è quasi introvabile ed è venduto a prezzo elevato.
Il
31, il colonnello Galatesi, di stanza a Teramo, è esautorato dal suo
incarico a causa di un suo violento proclama contro il
“brigantaggio”.
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