Se fossi stato più intelligente non sarei diventato scrittore: lo avrei capito subito che la cosa mi veniva autorevolmente sconsigliata. Ma io non ho la mente svelta e maliziosa che è la più ammirata dagli italiani e fa “cogliere al volo” quel che c’è da capire e, persino, “quel che c’è dietro”. Così, non comprendendo, non disistevo, sino a ritrovarmi con un lavoro completato, a dispetto di ogni disavventura ordita dagli dei ai miei danni e, forse, per il mio e il vostro bene…
Il mio primo libro fu “Elogio dell’imbecille”. Come tutti i miei libri, non lo cominciai perché intendevo scriverlo, ma perché cercavo risposte a una domanda: come mai ci sono tanti cretini e quasi sempre in posti di altissima responsabilità? E come mai mi succede di fare cose assolutamente stupide, persino accorgerdomi che sono stupide, senza smettere di farle?
Sono moderatamente autosufficiente: mi vesto da solo, so farmi la barba, riesco a preparare una colazione senza ricorrere a una società di catering… Pochissimo altro, oltre questo. Ma una cosa credo di saperla fare bene: so imparare. E, praticamente, da quando ho ricordi, non faccio e non voglio fare altro. Così, cominciai a studiare psicologia, antropologia, a fatica qualcosa di neurologia, sociologia (in contemporanea con libri di storia) e un po’ di tutto il resto, con particolare inclinazione per le scienze cognitive (diciamo quelle che tendono a spiegare perché facciamo quel che facciamo e in un certo modo, piuttosto che in un altro).
Dopo qualche anno, le cose che mi sembrava di comprendere ed elaboravo divennero troppe per ricordarle, e cominciai a scriverle. Mi ritrovai con troppe pagine disordinatamente accumulate, visto che gli argomenti erano sparsi, a pezzetti (a mano a mano che trovavo una spiegazione o un approfondimento), un po’ qua, un po’ là. Così, decisi di accorpare le cose, il che configurò uno schema (non volendo). Il mio incontro con Konrad Lorenz, a casa sua, ad Altenberg, sul Danubio, pochi chilometri da Vienna, mi fece vincere le ultime resistenze. E, se avessi avuto ancora dei dubbi, la mia successiva conversazione (la prima di una piccola serie) con Simon Wiesenthal, testimone della potenza della stupidità (l’Olocausto), mi dette la spinta ultima.
Mi misi a scrivere; insoddisfatto, riscrissi; e poi di nuovo. Alla fine, mi parve che la cosa avesse trovato la sua forma: infine, era un venerdì pomeriggio, mi trovavo in redazione e il lavoro della “prima chiusura” del giornale era concluso. Mi fiondai sull’Imbecille e scrissi a raffica, roba da dover immergere i polpastrelli in acqua, ogni tanto, per evitare ustioni da attrito… Telefonai a casa, per avvisare che sarei tornato tardi, ma quella sera, io e l’Imbecille avremmo chiuso i conti. Era mezzanotte da poco, quando inforcai l’ultima pagina, ormai leggero, in scioltezza, pregustando la soddisfazione di scrivere “Fine” (almeno mentalmente, visto che non c’è mai la fine di nulla).
Non so cosa feci e non l’ho mai capito: dovetti pigiare qualcosa di proibito sul computer, forse il tasto “ti odio!” o quello “ma gli dei hanno detto no”. Insomma: sparì tutto. Non avevo fatto backup (significa copie, mamma. Ma che te lo dico a fare, tu non hai toccato un computer in vita tua). Non avevo diviso i file (il testo) per capitoli. Tutto insieme, puff! Svanito (domanda: l’Imbecille era l’argomento del libro o l’autore? Tenetevi per voi la risposta; non m’interessa). I tecnici, dopo una giornata di lavoro, recuperarono 27 righi.
E io che feci? Non capendo il segnale, riscrissi.
Da anni, mi dedicavo anche ai temi che poi divennero “Terroni”. In teoria, avrebbe dovuto essere il mio primo libro: fu l’ottavo. Quando mi resi conto che c’era troppo materiale per lasciarlo grezzo, cominciai a scrivere. Ma, ancora, senza nemmeno l’idea di accorparlo in un libro. Il capitolo sugli stabilimenti siderurgici di Mongiana, per dire, lo scrissi la prima volta all’inizio degli anni Ottanta (del secondo millennio, non esageriamo) e di nuovo nel 2009.
Quando dicisi di fare il libro, mi persi nella vastità dell’argomento, e mi aggrappai alla mia regola: tu comincia e, per poco che possa fare, quello che resta è tutto meno quel poco, quindi è meno di tutto.
Ma, arrivato al capitolo delle stragi, dinanzi al documento sulla fucilazione di un pastorello dodicenne sospetto di brigantaggio perché aveva le scarpe, scoppiai a piangere e sfasciai la macchina da scrivere (ricordatevi di quale millennio si parla). Passarono anni e ripresi in mano il lavoro. Feci la parte più ingrata della fatica, per mesi e mesi: organizzai gli appunti, ricopiai le citazioni, divisi per argomenti, separai i libri consultati da quelli da consultare; compilai, accanto a ogni mucchio, i testi da rintracciare, i nomi delle persone da intervistare, su quali temi. La mia stanza di lavoro, in taverna (un salone percorso e tappezzato da biblioteche), sembrava alla vigilia di un trasloco; e la scrivania (due metri per uno scarso) poteva essere un buttatoio, per le montagnole di carte, fascicoli, libri aperti impilati. Ma in quella follia c’era un ordine rigoroso: tutto mi era facile rintracciare nel caos apparente (il caos ha le sue regole).
Un giorno partii per un servizio giornalistico che mi tenne lontano molti giorni. Al mio ritorno, la ragazza che aiutava mia moglie in casa, mi mostrò, trionfante, il suo regalo, per iniziativa personale: manco la biblioteca vaticana poteva vantare il nitore e l’ordine della mia taverna: i libri tutti a posto (quale? Uno…); i fascicoli uno sopra l’altro, su un ripiano, fogli, appunti, nastri registrati, in una scatola; la scrivania libera come una pista d’atterraggio e senza un granello di polvere. La poverina che aspettava emozionata un mio cenno di gratitudine, dovette leggere sul mio volto qualcosa di eloquente, perché infilò di corsa le scale e andò a ripararsi dietro mia moglie: mesi di lavoro buttati. Avrei dovuto capirlo, no? La ragazza non era in grado di concepire da sola una tragedia del genere, gli dei l’aveva agita. Ma io non ci arrivo…
Anni dopo, ricominciai e, a parte altre interruzioni per rabbia e sconforto, in appena una trentina di anni dai primi passi, giunsi alla conclusione (si fa per dire: a “una” conclusione, e solo perché la casa editrice mi tolse l’oggetto dalle mani). Ma dov’era finito il capitolo sugli ulivi che camminano, scritto sei-sette anni prima? Sparito. Scovai vecchi flop-disk (e fu un flop), moderni cd e “chiavette”…, nulla. Peccato, era così bello, mi piaceva tanto. Certo, avrei potuto riscriverlo, ma non c’era più tempo, ero già fuori tempo massimo. E mandai il libro senza il capitolo cui ero più legato. Alla Piemme lavorarono l’oggetto e lo inviarono per la stampa, mentre io sgombravo la scrivania e la bassa biblioteca “lavoro in corso” che la rinchiude come un muro, da anni di carte e cartuscelle. Giuro che non forzo nulla: ultima cartelina, un tipo che nemmeno mi sembra più in produzione, apro e ci trovo la stampata di un capitolo, quello perduto! E solo quello. Chiamo la Piemme, riesco a fermare la macchina, quel tanto che basta per far salire a bordo gli ulivi che camminano.
Del mio secondo libro. “Elogio dell’errore”, quando raccolsi i testi che, ammaestrato dalla precedente esperienza, avevo frammentato e sparso in più file (sono le cartelle del computer, mamma), scoprii che dovevo aver fatto qualcosa di strano: tre capitoli non c’erano più. Dovetti riscriverli.
Quando a “Giù al Sud”, il materiale raccolto era immenso. E se l’avevo appuntato sulla mia moleskine (quei blocchetti con l’elastico), vuol dire che valeva la pena. Ho un mio sistema di sintetizzare, a volte in una parola, due, un intero ragionamento; così, un solo blocchetto può contenere materia prima per centinaia di pagine. In viaggio da Bologna ad Asti, lasciai la moleskine in treno, sedile n.47, carrozza n.1. Persa per sempre. “Giù al Sud” contiene quello che si è salvato, perché già scritto, o perché nella mia memoria. Forse, gli dei hanno avuto pietà dei lettori, visto che, già così, siamo a 470 pagine.
Comincio a pensare che la sbadataggine sia solo un altro nome del senso della misura; che la perdita di interi capitoli (e persino tutti, come mi è successo) sia una forma di critica letteraria inconscia: rifalli, e stavolta, vedi di farli meglio; e che perdere la moleskine (ne avevo già persa un’altra tre anni prima), sia una inconsapevole arma di difesa dal troppo.
Tutto (quasi) si spiega; anche perché girano tanto, quando succede.
FONTE pinoaprile.it
Il mio primo libro fu “Elogio dell’imbecille”. Come tutti i miei libri, non lo cominciai perché intendevo scriverlo, ma perché cercavo risposte a una domanda: come mai ci sono tanti cretini e quasi sempre in posti di altissima responsabilità? E come mai mi succede di fare cose assolutamente stupide, persino accorgerdomi che sono stupide, senza smettere di farle?
Sono moderatamente autosufficiente: mi vesto da solo, so farmi la barba, riesco a preparare una colazione senza ricorrere a una società di catering… Pochissimo altro, oltre questo. Ma una cosa credo di saperla fare bene: so imparare. E, praticamente, da quando ho ricordi, non faccio e non voglio fare altro. Così, cominciai a studiare psicologia, antropologia, a fatica qualcosa di neurologia, sociologia (in contemporanea con libri di storia) e un po’ di tutto il resto, con particolare inclinazione per le scienze cognitive (diciamo quelle che tendono a spiegare perché facciamo quel che facciamo e in un certo modo, piuttosto che in un altro).
Dopo qualche anno, le cose che mi sembrava di comprendere ed elaboravo divennero troppe per ricordarle, e cominciai a scriverle. Mi ritrovai con troppe pagine disordinatamente accumulate, visto che gli argomenti erano sparsi, a pezzetti (a mano a mano che trovavo una spiegazione o un approfondimento), un po’ qua, un po’ là. Così, decisi di accorpare le cose, il che configurò uno schema (non volendo). Il mio incontro con Konrad Lorenz, a casa sua, ad Altenberg, sul Danubio, pochi chilometri da Vienna, mi fece vincere le ultime resistenze. E, se avessi avuto ancora dei dubbi, la mia successiva conversazione (la prima di una piccola serie) con Simon Wiesenthal, testimone della potenza della stupidità (l’Olocausto), mi dette la spinta ultima.
Mi misi a scrivere; insoddisfatto, riscrissi; e poi di nuovo. Alla fine, mi parve che la cosa avesse trovato la sua forma: infine, era un venerdì pomeriggio, mi trovavo in redazione e il lavoro della “prima chiusura” del giornale era concluso. Mi fiondai sull’Imbecille e scrissi a raffica, roba da dover immergere i polpastrelli in acqua, ogni tanto, per evitare ustioni da attrito… Telefonai a casa, per avvisare che sarei tornato tardi, ma quella sera, io e l’Imbecille avremmo chiuso i conti. Era mezzanotte da poco, quando inforcai l’ultima pagina, ormai leggero, in scioltezza, pregustando la soddisfazione di scrivere “Fine” (almeno mentalmente, visto che non c’è mai la fine di nulla).
Non so cosa feci e non l’ho mai capito: dovetti pigiare qualcosa di proibito sul computer, forse il tasto “ti odio!” o quello “ma gli dei hanno detto no”. Insomma: sparì tutto. Non avevo fatto backup (significa copie, mamma. Ma che te lo dico a fare, tu non hai toccato un computer in vita tua). Non avevo diviso i file (il testo) per capitoli. Tutto insieme, puff! Svanito (domanda: l’Imbecille era l’argomento del libro o l’autore? Tenetevi per voi la risposta; non m’interessa). I tecnici, dopo una giornata di lavoro, recuperarono 27 righi.
E io che feci? Non capendo il segnale, riscrissi.
Da anni, mi dedicavo anche ai temi che poi divennero “Terroni”. In teoria, avrebbe dovuto essere il mio primo libro: fu l’ottavo. Quando mi resi conto che c’era troppo materiale per lasciarlo grezzo, cominciai a scrivere. Ma, ancora, senza nemmeno l’idea di accorparlo in un libro. Il capitolo sugli stabilimenti siderurgici di Mongiana, per dire, lo scrissi la prima volta all’inizio degli anni Ottanta (del secondo millennio, non esageriamo) e di nuovo nel 2009.
Quando dicisi di fare il libro, mi persi nella vastità dell’argomento, e mi aggrappai alla mia regola: tu comincia e, per poco che possa fare, quello che resta è tutto meno quel poco, quindi è meno di tutto.
Ma, arrivato al capitolo delle stragi, dinanzi al documento sulla fucilazione di un pastorello dodicenne sospetto di brigantaggio perché aveva le scarpe, scoppiai a piangere e sfasciai la macchina da scrivere (ricordatevi di quale millennio si parla). Passarono anni e ripresi in mano il lavoro. Feci la parte più ingrata della fatica, per mesi e mesi: organizzai gli appunti, ricopiai le citazioni, divisi per argomenti, separai i libri consultati da quelli da consultare; compilai, accanto a ogni mucchio, i testi da rintracciare, i nomi delle persone da intervistare, su quali temi. La mia stanza di lavoro, in taverna (un salone percorso e tappezzato da biblioteche), sembrava alla vigilia di un trasloco; e la scrivania (due metri per uno scarso) poteva essere un buttatoio, per le montagnole di carte, fascicoli, libri aperti impilati. Ma in quella follia c’era un ordine rigoroso: tutto mi era facile rintracciare nel caos apparente (il caos ha le sue regole).
Un giorno partii per un servizio giornalistico che mi tenne lontano molti giorni. Al mio ritorno, la ragazza che aiutava mia moglie in casa, mi mostrò, trionfante, il suo regalo, per iniziativa personale: manco la biblioteca vaticana poteva vantare il nitore e l’ordine della mia taverna: i libri tutti a posto (quale? Uno…); i fascicoli uno sopra l’altro, su un ripiano, fogli, appunti, nastri registrati, in una scatola; la scrivania libera come una pista d’atterraggio e senza un granello di polvere. La poverina che aspettava emozionata un mio cenno di gratitudine, dovette leggere sul mio volto qualcosa di eloquente, perché infilò di corsa le scale e andò a ripararsi dietro mia moglie: mesi di lavoro buttati. Avrei dovuto capirlo, no? La ragazza non era in grado di concepire da sola una tragedia del genere, gli dei l’aveva agita. Ma io non ci arrivo…
Anni dopo, ricominciai e, a parte altre interruzioni per rabbia e sconforto, in appena una trentina di anni dai primi passi, giunsi alla conclusione (si fa per dire: a “una” conclusione, e solo perché la casa editrice mi tolse l’oggetto dalle mani). Ma dov’era finito il capitolo sugli ulivi che camminano, scritto sei-sette anni prima? Sparito. Scovai vecchi flop-disk (e fu un flop), moderni cd e “chiavette”…, nulla. Peccato, era così bello, mi piaceva tanto. Certo, avrei potuto riscriverlo, ma non c’era più tempo, ero già fuori tempo massimo. E mandai il libro senza il capitolo cui ero più legato. Alla Piemme lavorarono l’oggetto e lo inviarono per la stampa, mentre io sgombravo la scrivania e la bassa biblioteca “lavoro in corso” che la rinchiude come un muro, da anni di carte e cartuscelle. Giuro che non forzo nulla: ultima cartelina, un tipo che nemmeno mi sembra più in produzione, apro e ci trovo la stampata di un capitolo, quello perduto! E solo quello. Chiamo la Piemme, riesco a fermare la macchina, quel tanto che basta per far salire a bordo gli ulivi che camminano.
Del mio secondo libro. “Elogio dell’errore”, quando raccolsi i testi che, ammaestrato dalla precedente esperienza, avevo frammentato e sparso in più file (sono le cartelle del computer, mamma), scoprii che dovevo aver fatto qualcosa di strano: tre capitoli non c’erano più. Dovetti riscriverli.
Quando a “Giù al Sud”, il materiale raccolto era immenso. E se l’avevo appuntato sulla mia moleskine (quei blocchetti con l’elastico), vuol dire che valeva la pena. Ho un mio sistema di sintetizzare, a volte in una parola, due, un intero ragionamento; così, un solo blocchetto può contenere materia prima per centinaia di pagine. In viaggio da Bologna ad Asti, lasciai la moleskine in treno, sedile n.47, carrozza n.1. Persa per sempre. “Giù al Sud” contiene quello che si è salvato, perché già scritto, o perché nella mia memoria. Forse, gli dei hanno avuto pietà dei lettori, visto che, già così, siamo a 470 pagine.
Comincio a pensare che la sbadataggine sia solo un altro nome del senso della misura; che la perdita di interi capitoli (e persino tutti, come mi è successo) sia una forma di critica letteraria inconscia: rifalli, e stavolta, vedi di farli meglio; e che perdere la moleskine (ne avevo già persa un’altra tre anni prima), sia una inconsapevole arma di difesa dal troppo.
Tutto (quasi) si spiega; anche perché girano tanto, quando succede.
FONTE pinoaprile.it
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