venerdì 28 ottobre 2011

Traditori di uomini e traditori di idee

 E’ il caso di annotare che nel periodo napoletano Garibaldi prese il titolo di “Dittatore delle due Sicilie”. Questa circostanza destò enormi preoccupazioni a Torino, dove tutto si misurava col metro dell’inganno, sulle vere intenzioni del Generale, temendosi la proclamazione della Repubblica e un colpo di testa del Dittatore subornato dagli accorsi Mazzini e Dumas.

 In realtà Garibaldi avrebbe voluto detenere, ben oltre la data dei Plebisciti, un’ampia ed autonoma Dittatura delle Sicilie per sondare la possibilità di una azione su Roma o infiltrarsi e provocarvi moti annessionisti. Non era certo intenzionato a rimanere Dittatore delle Sicilie. Ne è prova incontestabile il secondo Decreto dato a Napoli nelle stesso giorno della presa del potere, Decreto con il quale Garibaldi dispone l’aggregazione immediata alla squadra navale di VITTORIO EMANUELE di tutta la marineria, sia da guerra che mercantile, delle Due Sicilie.

 

Napoli, 7 Settembre 1860

ITALIA E VITTORIO EMANUELE

IL DITTATORE DELLE DUE SICILIE

Decreta

Tutti i bastimenti da guerra e mercantili appartenenti allo Stato delle Due Sicilie, arsenali, materiali di marina, sono aggregati alla squadra del Re d'Italia VITTORIO EMANUELE, comandata dall’Ammiraglio Persano.

Il Dittatore

G. GARIBALDI.

 Questo titolo Egli utilizzò da subito nel primo Decreto del 7 settembre, dato in merito alla nomina di Ministri e Direttori dei Dipartimenti, con il quale confermava il famigerato Don Liborio Romano, in stretti rapporti con la camorra, “Al suo posto del Ministero dell'interno”.

 Procede e non fa sconti il Generale e diventa il primo dei pentiti dell’unità fatta male, ma soprattutto pentito di aver regalato l’Italia ai Savoia.

“Frattanto (8 settembre) ogni sollecitudine era spinta sino al ridicolo dagli aspiranti al merito di propaganda e d’intrighi per la Monarchia - messia, cioè Sabauda, che avean usato i più ignobili e gesuitici espedienti per rovesciare Francesco II e sostituirlo.

 Tutti sanno le mene d’una tentata insurrezione, che dovea aver luogo prima dell’arrivo dei Mille e per toglier loro il merito di cacciar i Borboni; ciocchè poteva benissimo eseguirsi, se la codardia non fosse l’apannagio dei servi.

 Non ebbero il coraggio d’una rivoluzione i Sabaudi fautori, ma ne avevan molto per intrigare, tramare, sovvertire l’ordine pubblico, con delle miserabili congiure e delle corruzioni fra i mal fermi servi della dinastia tramontante. E quando nulla avean contribuito negli ardui tempi della gloriosa spedizione, oggi che si avvicinava il compimento dell’impresa la smargiassavano da protettori nostri, sbarcando truppe dell’Esercito Sardo in Napoli (per assicurare la gran preda s’intende) e giunsero a tal grado di protezionismo da inviarci due compagnie dello stesso esercito, il giorno dopo la battaglia del Volturno, cioè il 2 Ottobre.

 Era bello veder i Regi settentrionali usar ogni specie di fallace ingerenza, corrompendo l’esercito borbonico, la marina, la corte, servendosi di tutti i mezzi più subduli, più schifosi, per rovesciare o meglio, dare il calcio dell’asino a quel povero diavolo di Francesco, che finalmente era un re come gli altri, con meno delitti, senza dubbio, per non aver avuto il tempo di commetterne, essendo giovane ancora. E rovesciarlo per sostituirvisi e far peggio!”

 Garibaldi poi getta luce sul suo frettoloso ritorno a Palermo e sulla sua contrarietà al Plebiscito, o almeno sui tempi di esso, che interferivano col suo progetto di conquistare Roma.

 “Anche a Palermo, com’era naturale, tramavano i fautori della monarchia sabauda e gettavano contro i Mille la diffidenza delle popolazioni, spingendola ad una annessione intempestiva. Essi mi obbligarono di lasciar l’esercito sul Volturno, alla vigilia di una battaglia, per recarmi nella capitale della Sicilia a placare quel bravo popolo suscitato dai Cavoriani agenti”.

 Il pentimento di Garibaldi su come venne fatta l’unità, lo si percepisce a pieno quando commenta la vicenda dei Plebisciti (citandola direttamente o indirettamente), è furente: le parole che utilizza nel 1870, lo mettono a rischio della vita:

 “La libertà poi, è un ferro a due fendenti. L’autocrate è il più libero degli uomini e della libertà si serve generalmente per nuocere. Il proletario, che più d’ogni altro abbisogna di libertà, quando giunge a possederla, la prostituisce o la trasforma in licenza.

 Voi mi direte che foste ingannati, uomini del popolo, quando vi corruppero; quando vi fecero gridar Viva la morte! E quando vi condussero a gettar nell’urna il vostro voto per un ladro, un servile od un tiranno! Ma voi vi lasciaste condurre, perversi!”

 Ma ancor più palese è l’accusa di inettitudine, chiaramente manifestata, che rivolge ai Savoia. Garibaldi dunque si accorse subito dopo l’unità di aver a che fare con personaggi altamente inaffidabili e con un Re che solamente fingeva di liberaleggiare ed al quale delle popolazioni meridionali poco importava, se non lo sfruttamento.

 La rivoluzione siciliana quindi è alimentata e guidata da Garibaldi, un uomo che ancor prima di partire da Quarto, era già sceso a compromessi con le sue idee repubblicane ed anticlericali in nome dell’Italia unita. E dopo averle tradite, si accorge che è stata tradita quell’idea dell’Italia che lo aveva ispirato e costretto a compromettersi con tali personaggi da operetta: il fallimento politico e umano è totale e l’amarezza traspare ad ogni parola insieme alla delusione.

 L’impresa garibaldina è connotata dal tradimento: tradito Francesco dai suoi generali e dall’affettuoso cugino che nega di aiutare Garibaldi, ingannato il popolo dai proclami del Dittatore e infine, ironia del destino, tradito dai suoi registi perfino il Condottiero.

 L’epilogo dello scritto è eloquente quanto disperato: “Tutte le cariatidi della Monarchia, come i primi, consueti al dolce far niente ed a nuotare nell’abbondanza, oggi piegando la schiena al lavoro.

Non più leggi scritte. Misericordia! Grideranno tutti i dottori dell’Universo, oggi obligati anche loro a menar il gomito per vivere. Finalmente una trasformazione radicale in tutto ciò che abusivamente chiamavasi civilizzazione e le cose non andavano peggio! Anzi scorgevasi tale contentezza sul volto di tutti e tale soddisfazione, per il nuovo stato sociale, ch’era un vero miracolo!

 Era però un sogno! Io mi svegliai beneficato certamente dalla visione; amareggiato però, subito dopo, dalla nauseante realtà della Società odierna.

 E cercai quindi, addolorato, di ripigliare la strada dell’isolata e deserta mia dimora.”

 Garibaldi che venne in Sicilia al grido di “Italia e Vittorio Emanuele”, primo fautore dell’unità nazionale savoiarda, è il primo ad ammettere il fallimento del processo unitario e l’incapacità dei Savoia di realizzare la Nazione degli italiani, la loro Patria futura. Ma ormai è tardi, il giorno del Generale è finito ed il sole dell’ideale non illumina più il suo Astro.

 L’anima della Sicilia attende da secoli, arsa come la zolla solcata dal caldo d’agosto, una goccia di giustizia. Attende il fremito d’ali di una farfalla, un battito unisono dei cuori dei suoi figli che spezzi le catene della sua storia … prima che il giorno finisca.

FONTE italiainformazioni.it

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