E' la porta del gasdotto con il Nordafrica e raffina il 40% del nostro carburante. Scoppia caso-energia / BECHIS
La Sicilia vuole andarsene dall’Italia, minacciando la secessione perfino con più forza di quanto non faceva Umberto Bossi per la sua Padania. «La Trinacria se ne va, ed è prontissima ad arrangiarsi da sola», ha tuonato ieri il governatore Raffaele Lombardo. Siccome laggiù, pur storcendo il naso, lui governa insieme al Pd di Anna Finocchiaro e al Fli di Fabio Granata, la guasconata di Lombardo è stata accompagnata da rumoroso silenzio. Nessuno ha strepitato e ha gridato all’attentato alla Costituzione e alla integrità nazionale, come capita quando alla Lega Nord sfugge qualche parola di troppo. Sopra il Rubicone magari qualcuno ha pure sorriso e si è sfregato le mani: “Lombardo vuole andarsene? Evviva”. Eppure non c’è molto da esultare. Perché se qualche altra regione del Sud volesse togliere il disturbo, è probabile che asciugatesi le lacrime con i fazzoletti di rito il resto degli italiani starebbe meglio. Dalla secessione quasi tutte le Regioni del Sud avrebbero da perdere, e il resto d’Italia si troverebbe più ricco.L'ECCEZIONE
Con l’addio della Sicilia sarebbe invece ben altra musica. Perché Lombardo l’avrà anche sparata, ma i suoi calcoli se li deve essere fatti per bene. Pochi lo sanno, ma la Sicilia ha in mano le chiavi dell’auto italiana. Lì si raffina il 40 per cento della benzina e del gasolio utilizzati nel continente. Non solo: Lombardo è in grado di spegnere luce gas e riscaldamento in buona parte di Italia. Un po’ perché lui produce energia in sovrabbondanza e il 12% lo gira alle altre Regioni. Ma soprattutto perché in Sicilia transitano il più grande metanodotto marino italiano che trasporta 25 miliardi di metri cubi di gas e passa di lì pure il gasdotto libico che attualmente è chiuso per guerra. Se uscendo dalle pastoie legali e burocratiche che finora li hanno fermati, venissero realizzati i due rigassificatori previsti a Porto Empedocle e a Priolo, quasi la metà del metano consumato in Italia verrebbe dalla Sicilia. Insomma, prima di chiudere i ponti con una Regione così, l’Italia dovrebbe pensarci su due volte. Lombardo ieri ha spiegato che se facesse la secessione, riscuoterebbe lui in loco quelle accise sui prodotti energetici che attualmente finoscono nelle casse del Tesoro italiano. È vero. E si tratta di 10 miliardi di euro all’anno. Una somma che compenserebbe ampiamente quel che la Sicilia verrebbe a perdere staccandosi dal resto di Italia.
La Regione già gode di autonomia allargata e riconosciuta da numerose sentenze della Corte Costituzionale. E la esercita sia sul piano della spesa (con risorse proprie) che su quello dell’entrata. Nel bilancio provvisorio per il 2011 approvato in attesa della legge finanziaria sono previsti trasferimenti da parte dello Stato centrale per meno di 3 miliardi di euro, in gran parte legati alla spesa sanitaria. In quella somma non sono considerati però altri costi del governo centrale, che paga con fondi suoi buona parte del sistema di istruzione siciliano, così come l’ordine pubblico e la giustizia. Secondo uno studio (contestato dai siciliani) della Cgia di Mestre che ha diviso per abitante la spesa pubblica regionalizzata censita dalla Ragioneria generale dello Stato, ogni siciliano costa al resto di Italia 550 euro per la sanità, 681 euro per l’Istruzione e 130 euro per ordine pubblico e giustizia. Ma anche mettendo insieme tutte queste voci, la bilancia penderebbe dalla parte dell’isola: 10 miliardi di euro di accise in entrata e 6 miliardi di euro di trasferimenti statali per sanità, istruzione e ordine pubblico a cui rinunciare. Ne avanzerebbero quattro, e sono ragione più che valida per non prendere sottogamba le parole di Lombardo.
IL NODO ACCISEC’è spazio perfino per discutere se le accise che insistono sulle produzioni essenzialmente dell’Eni di Paolo Scaroni a Priolo, Gela, Porto Empedocle, Milazzo, Augusta, Melilli e Ragusa, debbano essere incassate tutte dalla Sicilia o parzialmente divise con il governo centrale che quegli impianti ha agevolato e in parte finanziato di tasca sua. Ma il contenzioso non sarebbe di facile soluzione: da anni è in corso già un braccio di ferro fra Sicilia e Tesoro italiano per una divisione più equa di quella torta. Perché se i finanziamenti li ha fatti lo Stato, i danni ambientali li ha sopportati la Regione. Finora a compensazione sono arrivati a Palermo e dintorni qualche centinaio di milioni all’anno. Con una rottura l’Italia avrebbe solo da perdere.
FONTE: liberoquotidiano.it
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