martedì 18 settembre 2012

1861. Il regno delle Due Sicilie è annesso al Piemonte. Inizia la resistenza

1861. Il regno delle Due Sicilie è annesso al Piemonte. Inizia la resistenza

Dal Libro di Antonio Pagano: Due Sicilie 1830/1880

Luglio
S. Vito (Teramo), il 1, insorge contro il nuovo regime. Interviene il 30° reggimento fanteria. I militari rastrellano il paese, fucilano 153 civili e ne deportano 120 in Piemonte.
Nei boschi di San Fele avviene uno scontro tra guerriglieri e un forte gruppo di carabinieri e guardie nazionali. 14 sono catturati e fucilati. Nel comune di Isola gli insorti di Chiavone assaltano il posto doganale dello Scaffo S. Domenico es’impossessano d’armi e munizioni.
In Irpinia, il 2, sono in rivolta Chiusano, Sorbo Serpico, Salza, Volturara, Malepassoe Monteforte. Nel beneventano un drappello di soldati è massacrato e i loro cadaveri sono appesi ad un chiodo davanti alle porte delle case che poco prima hanno saccheggiato.

A Napoli sono arrestati per “camorrismo” circa 80 operai della costruenda ferrovia da Napoli all’Adriatico che protestavano per i bassi salari imposti dai piemontesi. Tumulti e scioperi sono compiuti ancora dagli operai della fabbrica Bruno e da ebanisti.
Il luogotenente Ponza, preoccupato per la crescente e dilagante rivolta, chiede urgenti rinforzi di truppe a Torino.
La società di Adami e Lemmi, intanto, dopo aver occultato tutto il denaro ricevuto per la costruzione delle ferrovie napoletane, rinuncia all’impresa. L’operazione è tenuta nascosta, mail giornale torinese, VEspero, denuncia le tangenti e perché fosse affidato l’appalto. Il governo decide di riaffidare l’opera al francese Talabot, socio di James de Rothschild, il banchiere parigino che aveva già finanziato tutti gli affari e le guerre dei Savoia. Il Talabot rinuncerà anch’egli alla concessione.
Il 5, a Montefalcione a seguito di una rivolta popolare sono scacciati i liberali e sono ripristinate le insegne delle Due Sicilie.
Sono aboliti il Collegio della Real Marina in Napoli, la Scuola d’insegnamento nautico di Piano di Sorrento, le scuole nautiche mercantili di Bari, di Palermo, Messina e Catania.
Il 6 insorge tutta l’Irpinia e sono respinti tutti i tentativi di attacchi delle guardie nazionali e delle truppe. Anche nel Matese la rivolta scoppia partendo da Letino e da Gallo. In Montemiletto quattro soldati e un caporale del 6° fanteria e un tenente della guardia nazionale sono uccisi dalla popolazione inferocita.
Il 7 si ribellano trentuno comuni che innalzano la bandiera delle Due Sicilie. I liberali scappano tutti a Napoli, i soldati catturati sono tutti massacrati. A Paroline, a Montemiletto e a Lapio sono costituite nuove autorità comunali. Sul colle Sant’Angelo, nei pressi di Atripalda, un gruppo legittimista è attaccato dalle truppe che sono respinte. I soldati si dirigono verso Manocalzati, che è rastrellato ed in parte saccheggiato.
A Monteforte Irpino 170 uomini della resistenza uccidono numerosi soldati occupanti.
In provincia di Campobasso un reparto di fanteria che sorveglia alcuni detenuti, attaccato dagli insorti, stermina i prigionieri per poter fronteggiare l’attacco senza impacci.
Il prefetto di Avellino, De Luca, alla testa di una compagnia del 6° fanteria e di un battaglione della guardia nazionale riesce a riprendere Atripalda e attacca poi Candida e Chiusano annientando le resistenze e procedendo poi a sommarie fucilazione dei catturati.
A Napoli vi è un altro violento tumulto degli operai della ferrovia contro la guardia nazionale, represso a fucilate da un reparto di bersaglieri.
Il governatore di Teramo, Sigismondi, chiede truppe al comando di Napoli per contrastare la resistenza che ha il completo dominio del Comune di Penne. Anche nel circondario di Sora opera incontrastato il gruppo comandato da Schiavone.
L’8, Carlo Torre, governatore di Benevento, invia al segretario generale del Dicastero di Polizia in Napoli, Silvio Spaventa, una relazione allarmata sulla situazione nel Sannio. Cialdini, acquartieratosi in Avellino, il 9, invia a Montefalcione una spedizione composta di 500 soldati del 6° fanteria e di un battaglione della guardia nazionale al comando del prefetto De Luca. Queste truppe, durante il loro cammino, ammazzano numerosi contadini solo per precauzione. Giunte nei pressi dell’abitato, sono assalite dagli insorti, circa 6.000, e devono rifugiarsi nel monastero dei Padri Dottrinari, subendo numerose perdite. Qui sono salvati da gruppi di fanteria e cavalleria della Legione ungherese accorsa da Nocera, quando già l’edificio sta per essere incendiato.
I reparti di Pilone assaltano Boscotrecase e, evitando di cadere in una trappola tesa dalle truppe, le aggirano e le sbaragliano uccidendo due ufficiali, impadronendosi anche delle armi da fuoco in dotazione e liberando dal carcere cinque insorti imprigionati. Sempre il 9, le bande di La Gala costringono le truppe a sgomberare tutto il beneventano.
Due colonne formate da 200 mercenari ungheresi, con quattro cannoni rigati, un battaglione e 800 guardie mobili assaltano nuovamente Montefalcione. La cittadina è circondata e dopo un’accanita resistenza è presa, saccheggiata e data alle fiamme. Sono assassinati oltre 150 cittadini, altre centinaia sono deportati. Il maggiore ungherese Girczy, comandante del reparto ungherese, è decorato con la croce di cavaliere dell’ordine militare di Savoia e la medaglia di bronzo al valor militare. Altri quattro ufficiali piemontesi hanno la medaglia d’argento.
In Capitanata il generale Gustavo Mazé de la Roche ordina di incendiare tutte le masserie abitate e i pagliai, facendo eseguire un ferreo controllo all’uscita degli abitanti dai villaggi. Ogni sospetto è fatto fucilare. Da Bojano, in una lettera ai familiari, scrive: «siccome i prigionieri facevano il gesto di slegarsi chiamando in loro soccorso i banditi, i soldati hanno cominciato ad ucciderli; sbarazzatisi così di loro, essi hanno potuto, malgrado il loro numero, trarsi d’impaccio».
L’ 11, De Luca porta le truppe ungheresi a Lapio, Montemiletto e Montefusco: anche qui verificano uccisioni, saccheggi e incendi. Numerosi abitanti riescono a salvarsi con la fuga dirigendosi sulle vicine montagne. A Volturara De Luca fa impiccare un popolano e dà l’ordine di lasciarlo appeso per molti giorni nella piazza del paese.
Sono molte centinaia i paesi che si ribellano all’invasore piemontese e ai loro collaborazionisti ed è quasi impossibile descriverli tutti. È un intero popolo che insorge. Sono uccisi liberali, i sindaci collaborazionisti e gli ufficiali della guardia nazionale. Sono distrutti gli archivi comunali, distrutti gli stemmi sabaudi e sono liberati numerosi detenuti. Tra i fatti più importanti vanno citati quelli avvenuti a Visciano e di Vallerotonda in Terra di Lavoro; a Migliano e a Moschiano nel Nolano; a Castelpagano e a Circello nel Beneventano; a Castelluccio, Montecilfone, Guglionisi, Acquaviva, San Felice e Cercepiccola nel Molise; a Fano Adriano, Tossiccia, Crognaleto, e Montebello nel Teramano; a Pennapiedimonte, nel Chietino; a Pescolamazza e Avella nell’Avellinese; a Baragiano ed Auletta in Basilicata; a Vieste nel Gargano; a Gioia del Colle in Terra di Bari; a Serracapriati in Terra d’Otranto; a Strangoli, Zagarise e San Mauro in Calabria. Tutti questi paesi subiscono dopo pochi giorni la repressione disumana dei piemontesi che uccidono, saccheggiano e danno alle fiamme le case. Molte centinaia di persone senza alcun motivo sono arrestate e deportate in Piemonte o in Lombardia.
Il 12, in Capitanata i bersaglieri ed i lancieri del “Milano” sorprendono e catturano nume rosi insorti alla masseria Nocelle, presso Lucerà: ne fucilano sette anche se hanno deposto li armi e si sono già arresi. A Vastogirardi e ad Acquaviva Collecroce, nel Molise, le guardie nazionali riescono a respingere un assalto.
A Napoli il conte Ponza di S. Martino si dimette da luogotenente generale.
Il 13, ad Arpaia, nel Beneventano, un reparto di bersaglieri e fanteria è messo in fuga, dopo uno scontro, dai gruppi di La Gala. Anche la guardia nazionale di Colle Sannita subisce perdite a Toppa dei Felci. Altri assalgono la guardia nazionale di San Nicola e Monteforte Irpino, ma senza successo. Nuovi scontri avvengono nei boschi di San Fele presso Ripacandida. In Calabria il 29° fanteria attacca a sorpresa formazioni di guerriglieri a Strangoli, Picerno, Taverna e S. Giovanni in Fiore, ma la maggior parte riesce a fuggire nascondendosi nella Sila.
È emessa un’ordinanza, firmata da Silvio Spaventa, per la formazione di altri reparti di guardie nazionali. Sono arruolati circa 600 ufficiali ex garibaldini e circa 20.000 guardie. È assicurata una paga di centesimi 77 (grani 18) il giorno, superiore al salario medio dei braccianti, ma sono numerosissimi i contadini che cominciano ad occultarsi nei boschi.
Il 14, il gruppo di resistenza comandato da Chiavone, attraversata la Val Roveto, libera S. Vincenzo, S. Giovanni, Collelongo e Villavelonga e si dirige verso il piano delle Cinque Miglia per riunirsi ai gruppi comandati da Centrillo nella Majella, ma prima di Pescasseroli la formazione è costretta a ripiegare perché trova le strade sbarrate dal 35° fanteria piemontese. Nel ripiegare verso il fiume Liri i guerriglieri sono assaliti durante il guado dal 44° fanteria e subiscono molte perdite.
È assalita la corriera di Rotonda da 9 insorti che si procurano nuove armi dai carabinieri messi in fuga.
Ad Avellino 60 insorti si costituiscono e sono subito incarcerati. Altri episodi di protesta perle paghe troppo basse avvengono a Napoli, ma i dimostranti sono dispersi dall’intervento delle guardie nazionali.
Il 15 il generale Giovanni Durando è sostituito dal generale Cialdini, che ha anche la carica di Luogotenente delle Provincie Napoletane, riunendo nelle sue mani il potere militare e quello civile. Il governo, considerando molto seria la possibilità di una loro cacciata dai territori appena conquistati, ordina a Cialdini di reprimere le insurrezioni con tutti i mezzi di guerra, ordinando con decreto il saccheggio e la distruzione dei centri ribelli. Costui ristruttura la guardia nazionale, arruolando anche delinquenti, ex garibaldini e assassini, liberati dalle carceri, promettendo loro l’impunità per ogni loro atto diretto contro i briganti. È aiutato in questo reclutamento dalla borghesia del Napoletano, possidenti, coloni e proprietari vari, che temono per la loro incolumità.
È instaurato un sistema di carcerazione senza prove e su semplici sospetti e il domicilio coatto. Sono moltiplicati premi e le taglie per favorire la delazione. È intensificata particolarmente una guerra psicologica attraverso bandi, proclami e servizi giornalistici e fotografici che deformano ogni notizia per stroncare la volontà di resistenza della popolazione.
Le truppe destinate a combattere la guerriglia sono portate a circa quarantamila uomini. Il VI corpo d’armata è formato da 18 reggimenti di fanteria, 9 battaglioni bersaglieri e 2 reggimenti di cavalleria, ai quali si aggiungono le guardie nazionali reclutate nelle varie zone. Solo a Napoli e dintorni vi sono 37 battaglioni. In seguito sono create zone militari allo scopo di presidiare i territori più importanti. Sul confine romano le truppe sono poste al comando del generale Govone, in Terra di Lavoro è posto il generale Pinelli, nel Molise Villarey, in Calabria De Gori. A questi comandanti è dato il preciso ordine di dare alla repressione un carattere spietato allo scopo di terrorizzare la popolazione.
Al parlamento di Torino è approvato il 15 un decreto che dichiara il corso legale della lira piemontese in tutto il territorio del regno.
In Calabria, il 16, il capo della resistenza calabrese, Luigi Muraca, pubblica un suo proclama:
«Catanzaresi, alle promesse lusinghiere succedette il disinganno, alla ricchezza la povertà, alla libertà la schiavitù. Eccoci, o Calabresi, al disinganno del dolore, all’iliade più amara, sol chi è cieco non vede là dove ci hanno condotti i falsi liberali, quelli appunto che mettendosi un cencio rosso cercarono ed ebbersi la pagnotta, e non fecero che per aver il loro scotto. E di fatto, se non fu violento il plebiscito, perché le reazioni molteplici di tutte le Provincie del governo borbonico? Perché il malcontento di tutte le classi, meno la classe pagnot-tizia? E dov’è mai la libertà sotto un governo liberticida che stiva le prigioni del nostro reame di reazionari da quello chiamati col nobile nome di briganti? Le carceri pubbliche non possono contenere di avantaggio. Dov’è la ricchezza se l’erario è smunto, se spoglie sono tutte le casse pubbliche, depauperata la più ricca fra le metropoli, Napoli. Dunque, o calabri, ai fatti: noi abbiamo incominciate le nostre campagne, non già come quelle del Gialdini con la marziale fucilazione, ina con la palma, con lo giglio, col vessillo del nostro legittimo sovrano Francesco secondo figlio di una santa, pronipote di un santo; guai a chi opporrassi alle mie bande che non entreranno quai ribelli nei paesi e nelle città dei prodi calabresi. Lo sanno gli scherani del Re sabaudo, lo sanno gli stessi francesi che non hanno dimenticato il bruzio valore; lo sanno i raccogliticci e melensi carabinieri; lo sa infine la piumata guardia nazionale che altro non è buona, a fare la sua comparsa pluteale, ebbene noi marceremo per istabilire in Calabria il governo provvisorio a nome di Re Francesco secondo: se seguaci troverete l’ancora della salvezza, se avversi ritenete che è sonata l’ora vostra. Del territorio di Catanzaro, 16 luglio 1861. Il Generale in Capo Muraca Luigi».
Il 16, Francesco II, in una lettera inviata a Bermudez de Castro, afferma che i progettati sbarchi in Sicilia ed in Calabria sono compromessi.
Il giorno 17, Chiavone scaccia le guardie nazionali e bruciano le case dei liberali a S. Giovanni e a S. Vincenzo nei pressi dell’Aquila. Il 44° di linea giunge quando gli insorti sono già andati via.
A Napoli, Silvio Spaventa, si dimette, dileguandosi senza lasciare traccia.
Il gruppo di Chiavone il 19 è assalito di sorpresa a Collelungo da reparti del 14° fanteria, ma riesce a sfuggire all’accerchiamento rifugiandosi nel territorio pontificio.
A Napoli, il 19, Cialdini, alla cerimonia d’insediamento, fa un minaccioso proclama terminando con la frase: «Quando rugge il Vesuvio, Portici trema».
A Gioia del Colle i piemontesi, allo scopo di prevenire altri accenni di rivolta, incominciano ad incarcerare una cinquantina di presunti ribelli. Il 20 è fucilato ad Avellino il comandante Vincenzo Petruzziello, catturato a seguito di un tradimento. Nelle campagne irpine le truppe catturano 232 “sospetti”, tra i quali numerosi preti e le varie autorità dei paesi. Il giorno dopo vi è uno scontro a Baragiano tra piemontesi e insorti, i soldati savoiardi sono precipitati nei vicini burroni per risparmiare le munizioni.
Il 21, l’ex sergente Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle, riunisce una folta comitiva di guerriglieri nei boschi vicini. Romano dà alla sua banda una vera e propria struttura militare caratterizzata da una ferrea disciplina.
Sempre il 21, si verifica uno scontro tra un reparto di guardia nazionale e un gruppo di resistenza di Cellino S. Marco. 11 sono catturati e portati a Brindisi dove sono fucilati.
A Nola, dove il generale Pinelli ha posto il suo comando per la repressione dei movimenti legittimisti, sono concentrati tutti i sospetti catturati, che sono fucilati senza alcun processo. Napoleone III, da Vichy, dopo aver affermato che miseria ed anarchia imperversano nelle Due Sicilie dove si uccide indiscriminatamente, conclude in una lettera di protesta al governo savoiardo: «les Bourbons n’ont jamais fait autant».
Il giornale torinese cattolico “L’Armonia”, il 21, dichiara che degli oltre 70.000 soldati, che componevano il disciolto esercito duosiciliano, solo 20.000 “consentivano a cambiare uniforme e giurare fedeltà al nuovo governo”. Di questi circa 18.000 erano stati incorporati coattivamente.
Il Senato decreta la costruzione di un arsenale marittimo militare a La Spezia e lo smantellamento di quello di Napoli.
Nella Valle del Liri si ha un altro violento scontro tra gli insorti di Chiavone e un forte raggruppamento di truppe del 44° di linea rinforzato da guardie nazionali.
A S. Giorgio La Montagna, nell’avellinese, il 22 la casermetta della guardia nazionale è assalita da una folla tumultuante.
Il 23, per opera dell’avvocato Ettore Noli, è scoperta dalla polizia quella che è chiamata “congiura di Frisio”, dal nome del villino a Posillipo dove si riunivano i congiurati. Sono coinvolti: Monsignor Bonaventura Cenatiempo, un ricco avvocato ecclesiastico, Girolamo Tortora, un facoltoso possidente di Nocera dei Pagani, e altri ex ufficiali duosiciliani, tra i quali il conte de Christen. Gli incriminati sono 81, ma la maggior parte riesce a fuggire in tempo. I restanti sono tutti condannati a dieci anni di lavori forzati. Il 14 ottobre 1862, il Cenatiempo riuscirà a sfuggire dal carcere, nascondendosi in una cesta di biancheria sporca e riuscendo a raggiungere avventurosamente Roma, dove sarà accolto gloriosamente da Francesco n.
Il 24, in un rapporto dell’intendente di Cerreto Sannita, Mario Carletti, al governatore di Benevento, Carlo Torre, così si legge: «I briganti scorazzanti pel Matese, corona di aspre ed intrattabili montagne poste a cavaliere di questa contrada, sono entrati nell’ardito intendimento di scendere al piano e aggredire l’abitato per consumarvi fatti di immane atrocità appena che la poca forza regolare qui stanziata se ne apparti per poco chiamata altrove …». Il governatore di Benevento chiede immediatamente altre truppe al luogotenente Cialdini.
Gli insorgenti del Matese sono guidati da Cosimo Giordano di Cerreto Sannita, ex sergente. Il raggruppamento è costituito da circa duecento guerriglieri.
Ancora il 24, Gioia del Colle e S. Vito insorgono ancora, contando sul gruppo del sergente Romano, ma le truppe del 30° fanteria e le guardie nazionali, entrate negli abitati nei giorni successivi, compiono un massacro di 170 persone a Gioia del Colle e di 65 a Vieste. Tra i fucilati vi è anche il fratello del Sergente Romano, Vito, di appena diciassette anni.
Violenti tumulti avvengono a Messina tra gli operai che protestano per le basse paghe imposte dai piemontesi.
Il 25 vi è uno scontro a Cellino S. Marco tra guardia nazionale e insorti, di cui undici sono catturati e fucilati il giorno dopo nella piazza centrale di Brindisi. Il gruppo di resistenza comandato dal sergente Romano si concentra nel bosco Lama dei Preti.
A Napoli è arrestato e rinchiuso nel carcere di S. Maria Apparente il figlio del principe di Montemiletto, Carlo Tocco, duca di Popoli, uno dei principali organizzatori della resistenza partenopea.
Numerose colonne mobili formate da reparti del 30° fanteria e squadre della guardia nazionale rastrellano le campagne intorno alla città di Bari.
Negli ultimi giorni di luglio Chiavone attacca, in più riprese, il 3° reggimento granatieri, fucilando ogni piemontese fatto prigioniero. Di lui parlano le gazzette legittimiste di tutta Europa, esaltando le sue gesta. A Napoli, alcuni insorti con veloci azioni si riforniscono di armi e munizioni nelle casermette a Capodimonte ed al Vomero.
Il 27 i bersaglieri arrestano presso Pozzuoli un corriere perché in possesso di carte “borboniche” e lo fucilano nel paese di Qualiano.
Antonio Apuzzo, detto Caprariello, forma un gruppo di 200 insorti, numerosi dei quali provenienti dagli sbandati del gruppo di Barone.
AI Sud la situazione economica continua a peggiorare: il pane è quasi introvabile ed è venduto a prezzo elevato.
Il 31, il colonnello Galatesi, di stanza a Teramo, è esautorato dal suo incarico a causa di un suo violento proclama contro il “brigantaggio”.

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